"Mi figlio non c'è più ma la mia battaglia è per le altre madri come me e gli altri figli che ancora sono in carcere"
Messina – Parla Michela Lauria, la madre del detenuto messinese morto in carcere a Catanzaro e al centro di una inchiesta che mira a fare luce sulle circostanze del decesso. Domenico Ivan Lauria aveva 28 anni. Tossicodipendente, invalido al 75%, negli ultimi 4 anni era stato trasferito di penitenziario in penitenziario e nessuna delle istanze del difensore, l’avvocato Pietro Ruggeri, hanno trovato accoglimento.
Il tentativo della mamma e del legale, spiegano ai microfoni di Silvia De Domenico e Alessandra Serio, era fargli ottenere il trasferimento in una comunità, o i domiciliari per riportarlo a casa per essere curato o quanto meno in un carcere più vicino alla sua famiglia. Istanze tutte rimaste ferme per mesi e poi respinte. Oggi la famiglia vuole fare chiarezza anche su questo aspetto, oltre che sulla morte, dichiarata come naturale o ascrivibile a suicidio, mentre i familiari sospettano che Domenico sia stato picchiato in cella.
“Non è possibile che un ragazzo tossicodipendente resti in carcere, non è possibile che un ragazzo muoia a 28 anni in carcere”, ripete l’avvocato Ruggeri. Il caso Lauria torna a sollevare il problema delle drammatiche condizioni delle carceri italiane.
“In questi anni ci sono stati carceri in cui è stato trattato meglio e seguito e sembrava rinato – spiega la signora Michela – dove c’erano operatori sociali e dove riuscivo a sentirlo più spesso. Questo lo teneva a galla, sembrava pronto a ripartire. Poi ci sono stati carceri dove abbiamo vissuto momenti molto brutti, lui stesso e io abbiamo temuto per la sua vita, era più difficile sapere come stava, sentirlo, stargli vicino”.
A Catanzaro Ivan è stato trasferito il 2 novembre scorso, spiega la madre. Ma lei è venuto a saperlo solo la sera del 15 novembre, quando con un’agghiacciante telefonata ha scoperto che il figlio era morto. La donna, che per tutta la vita si è data forza per darla al figlio, adesso lotta per non arrendersi e lasciarsi andare. La sua battaglia, oggi, è quella per capire cosa è successo a suo figlio. Perché “mio figlio non c’è più, ma ci sono tanti altri figli in carcere come lui e madri come me, questa battaglia è per loro, nella speranza che non accada loro la stessa cosa”.
Se il detenuto era un immigrato clandestino la magistratura specialmente di sinistra avrebbe avuto un occhio di riguardo, ma purtroppo per lui era italiano.
Nstwviva, questa te la potevi risparmiare!
Per alcuni in carcere ci sono solo gli immigrati, poiché sono la causa di tutti i mali del paese e sono un grave problema, invece poi, quando dovete girare la frittata, si scopre che usufruiscono di occhi di riguardo. Non sapete cosa dire e la sparate sempre più grossa, basta che la colpa sia della sinistra e degli immigrati.